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Il campo di concentramento e il manicomio: due luoghi di disumanizzazione a confronto

Di Federico Mazzotta

Disumanizzazione: “Svuotamento della vita umana da ogni spiritualità e senso morale e quindi da ogni dignità” (da OxfordLanguages).

A partire dal l novembre del 2005, grazie all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, viene istituita il 27 gennaio la cosiddetta Giornata della Memoria per ricordare le vittime dell’Olocausto, considerato il più grande (ma non l’unico) genocidio del XX secolo: si stima infatti che, tra il 1933 e il 1945, le autorità della Germania Nazista hanno ucciso tra i 15 e i 17 milioni di persone, tra persone di discendenza e religione ebraica (la maggior parte), civili slavi e provenienti dai Balcani, prigionieri di guerra sovietica, oppositori politici, Testimoni di Geova, disabili, rom e omosessuali.
La brutalità di questo avvenimento, però, non è legato solo all’omicidio di queste persone, ma, come moltissimi storici, intellettuali e pensatori hanno messo in luce, è legato al processo di disumanizzazione che gli oppressori hanno attuato nei confronti delle vittime. Queste persone vennero infatti portate inizialmente, stipate all’interno dei treni merci, come fossero oggetti o animali, verso dei campi di concentramento, dei veri e propri campi di sterminio mascherati da campi di lavoro (emblematica la scritta “Arbeit macht frei” posta all’entrata di molti di questi campi), dove le persone venivano dapprima usate come manodopera forzata nelle fabbriche, per poi essere sterminate all’interno di vere e proprie camere a gas (le cosiddette docce) tra atroci sofferenze. I corpi venivano poi raccolti dai Sonderkommando, un’unità speciale composta da persone deportate di religione ebraica costrette a collaborare con le autorità naziste che avevano il macabro compito di seppellire i corpi. Spoglie che in un primo periodo vennero seppelliti in grandi fossi, rendendo malsane le acque e l’aria dei campi di concentramento. Successivamente, per ovviare a questo problema, si iniziò a cremare i cadaveri, a tal punto che, nel centro di Auschwitz, uno dei più famosi, i forni crematori erano sempre accesi e bruciavano incessantemente.
All’interno di questi campi, le persone avevano un numero di matricola che veniva impresso con un tatuaggio e che veniva utilizzato dalle autorità naziste per chiamare le povere vittime. Queste persone perdevano quindi il loro nome, la loro identità, unico segno indelebile dell’umanità di una persona. Un altro aspetto di fortissima disumanizzazione erano le condizioni in cui i deportati vivevano: gli alloggi consistevano in delle capanne, dei veri e propri tuguri privi di ogni struttura igienica con gabinetti costituite da recipienti da svuotare, in cui i detenuti, sovraffollati, dormivano ammucchiati su strutture di legno senza coperte o cuscini.

Disumanizzazione: “Il disumanizzare, il disumanizzarsi; privazione o perdita delle qualità più proprie dell’uomo, anche con riferimento agli effetti negativi che possono avere su di esso taluni aspetti della società contemporanea, e soprattutto un’organizzazione del lavoro che imponga soltanto cómpiti meccanici e ripetitivi” (da Treccani).

Sebbene l’Olocausto, che ogni anno vale la pena ricordare, soprattutto in questo periodo caratterizzato da terribili guerre su scala mondiale affinché episodi così tragici possano non cadere nell’oblio, costituisca forse l’evento più forte di disumanizzazione, non bisogna scordarsi che tantissime altre forme simili si sono perpetuate negli anni.
Proprio in questo periodo, mi è capitato di rileggere dei pezzi tratti dal romanzo La Corsia n. 6 di Anton Čechov, scrittore russo considerato, insieme a Dostoevskij, Tolstoj, Turgenev e altri, come uno dei maggiori esponenti della letteratura russa. Il romanzo in questione narra di Andrej Efimjc, un medico di un piccolo ospedale di provincia che si occupa dei degenti del reparto n.6 dove sono rinchiusi cinque malati psichiatrici, sorvegliati e picchiati dal guardiano.
Nonostante l’ospedale raccontato da Čechov non sia un vero e proprio manicomio, il tutto mi ha portato alla mente la visita al Museo Laboratorio della Mente nato dopo la chiusura del manicomio dell’ospedale Santa Maria della Pietà situato a Roma nel quartiere Monte Mario a seguito della legge Basaglia del 1978.
Il Santa Maria della Pietà era una vera e propria città nella città in cui si voleva nascondere, e dove non si lasciavano più uscire, i malati psichiatrici al suo interno. Era diviso in due sezioni rigidamente separate: l’area maschile e quella. Erano presenti una chiesa, un alloggio i cui servizi interni erano garantiti dalla presenza di un impianto termico centralizzato, la cucina, la dispensa, lavanderia e una piccola sala operatoria, una chiesetta, l’alloggio delle suore e delle piccole fabbriche per lavorare il legno. La parte più emblematica era però la cosiddetta “fagotteria”, ossia l’entrata dove i degenti erano costretti a depositare tutti gli effetti personali (cosa c’è di più disumanizzante di non poter portare con sé neanche gli occhiali per vedere?).
Così come per le baracche nei campi di concentramento, all’interno dei padiglioni dell’ospedale la vita era costituita da spazi stretti e sovraffollati. C’era un rigidissimo codice di comportamento e, ad ogni cambio di turno, gli infermieri dovevano fare la conta dei pazienti e riportare il tutto su di un registro detto vacchetta.
Nei momenti vuoti i degenti venivano posti nelle sorveglianze interne od esterne e lasciati a se stessi, in una nullafacenza delirante e controproduttiva. Solo occasionalmente venivano concesse delle passeggiate nel parco del manicomio.
Questi luoghi che sono stati appena accennati raccontano da sé le atrocità della disumanizzazione. Non si può certamente rimediare al dolore che questi spazi hanno creato, ma si può riflettere e ricordare per evitare che tutto ciò non accada più.

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